Unici e speciali

Quanta gente finge di essere altro da quello che è?

Una finzione che diventa talmente consueta che tanti dopo un po’, a forza di raccontarsele, a quelle storie ci credono pure.

Quel “altro” è la versione riveduta e corretta di sè. Una immagine photoshoppata perché sia più conforme al gusto mainstream e a quelli che sono gli standard di successo, bellezza, visibilità e moda in auge.

Insomma il giusto ritocchino. Senza rughe nelle foto e senza rughe nella vita.

“Altro” è in qualche misura  come gli altri si presume ti vorrebbero. Il socialmente rilevante. Quel che piace e crea ammirazione e invidia. Che poi non abbia se non una vaga attinenza col vero poco importa. 

Vale lo stesso che capita con la chirurgia estetica. Punturine e ritocchini (anche se visibili) non impressionano nessuno. Bisogna proprio conciarsi a gommone per ottenere qualche moto di disapprovazione.

Ma oltre alla perdita di autenticità – già di per sé un disvalore secondo me – c’è pure la fesseria del valutare positivamente il conformismo totale. Un assurdo considerando quanto il valore non sia nell’essere tutti banalmente uguali ma nell’essere diversi e quindi unici e speciali.

Eppure per paura di essere fatti fuori dal gruppo, dalla classe, dal clan o dalla comunità in generale la gran parte della gente cerca di omologarsi.

È una idea così radicata nella mente degli uomini che nella storia – per usare un grottesco e fantasioso paradosso – unisce comunismo cino sovietico e capitalismo americano.

Con la differenza che il comunismo era (credo onestamente non esista più….) una livella verso il basso mentre il capitalismo consumistico americano ha creato un mondo di gradini sociali per reddito  ben circoscritti e con precisi status symbol per gradino. Conformismo a fasce. 

Mondi in cui si desiderano le stesse cose, si acquistano gli stessi vestiti delle stesse marche negli stessi posti, si comprano le stesse macchine, si sognano case nella stessa zona della città e via così. 

Ed è qualcosa di attualissimo se penso alle parole di mia figlia (norvegese per metà) che tornando dopo 6 mesi dalla ricchissima Norvegia mi ha detto “è un mondo dove funziona tutto ma dove le persone sono tutte uguali. Tutte con gli stessi desideri e sogni. Diventa presto noioso avere a che fare con la gente”.

È una tendenza umana che ha radici profonde.

Se guardate i ragazzini – e questo è  evidentissimo in Italia – sono per lo più vestiti tutti allo stesso modo, hanno tutti lo stesso zainetto, le stesse scarpe e lo stesso giubbotto. Ascoltano tutti la stessa musica e parlano un comune orrendo slang. 

Il bisogno elementare di stare protetti in gruppo.

Niente di nuovo. Io sono della generazione dei paninari. Timberland ai piedi, calze Barlington, pantaloni americanino o rifle e piumino Moncler. moto Zundapp (un cancello con due ruote) e le ragazze tutte con le borse Naj Oleari.

Quel che mi impressione è che questa deficienza umana invece che essere tendente a risolversi per il meglio pare al contrario straripare. È una pandemia sempre più virulenta e larga.

Se penso ad esempio al mondo del lavoro, da ogni parte si blatera del valore della diversity e della importanza della inclusività ma, se vai a guardare da vicino, le cose sono più perversamente complicate di quanto viene detto.

I processi e gli strunenti usati in ambito HR vanno in direzione opposta. Vince lo schematismo e vince l’automazione. 

Le aziende cercando talenti che si incastrino in un preordinato international leadership model, accessibile a tutti – senza barriere di genere, colore etc. – ma del tutto preordinato. 

Si usano algoritmi per selezionare le persone. Peccato che un algoritmo non capirà mai la preziosa fertilità del diverso. Quello bravo che non fitta. Il cigno nero. L’outsider che apparentemente non c’entra eppure potrebbe essere un fattore disruptive.

L’automazione non ha cuore, fegato, sudore, immaginazione, sensibilità….. Selezionare le persone affidandosi così tanto alle macchine alla lunga non può che essere un totale disastro.

E poi sempre più vengono marginalizzati gli over 50. Discriminati brutalmente a favore dei giovani. Alla faccia della inclusion e di tutte le belle parole ipocrite.

È solo quando riusciamo ad essere il più possibile autentici – con pregi, difetti, paure, debolezze e talenti – che diventiamo la miglior versione di noi stessi.

La libertà ci fa migliori.

Questa è la diversità in cui credo. E diversi lo siamo tutti.

1 commento su “Unici e speciali”

  1. Vediamo se capisco l’articolo. Nel rifiuto delle politiche inclusive c’è la percezione che siano false, mainstream istituzionalizzate e normalizzate, dimenticando le lotte contro il conformismo e la discriminazione da cui vengono? Questa normalizzazione le fa percepire come mainstream e parte del sistema e quindi false, ma è un automatismo pericoloso.

    Qui c’è una giusta critica a conformismo e appiattimento, mi era piaciuta la canzone di ColapesceDiMartino “meglio soli sulla nave, per non sentire il peso delle aspettative”

    Nella politica, quella fatta da noi tutti i giorni come comunità è importante lo sforzo dell’integrare senza chiedere di conformarsi se non a delle regole essenziali, rivedendo automatismi che oggi diamo per scontati nell’escludere.

    Quindi dal vestirsi tutti in un certo modo al dover esprimere il proprio genere conformandosi a delle norme. Ad un’idea tossica di competitività che chiede di vedere l’altro come un mezzo e impedisce di legare.

    Alcune persone pensano di andare contro il “pensiero unico” riproponendo di fatto il conformismo ed un pensiero unico più vecchio, come se i legami sociali si restaurassero in quel modo.

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